Essaouira, città di vento
Racconti di viaggio
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Se siete alla ricerca d’informazioni sui luoghi principali da visitare a Essaouira, vi rinvio a quest’articolo: Cose da Fare a Essaouira in un giorno.
Nella pagina in questione, invece, potete trovare una personale descrizione di questa città dalle vesti mistiche e i sapori del vento.
Me ne avevano parlato di Essaouira, piccola cittadina di porto molto turistica, piena di attività in mano ad europei e meta prediletta dai surfisti. Mi avevano detto “vacci”, quando domandai se ne valeva la pena, “così vedrai di cosa si tratta”.
Non credo volessero anticiparmi ciò che trovai, con quella frase, come se quel “di cosa si tratta” si riferisse a qualcosa di specifico che loro conoscevano bene mentre io ne ero ancora ignara. Penso solo volessero dirmi di andare, così almeno avrei potuto dire di esserci stata. Credo fosse questo il significato.
Ci andai con tutti i pregiudizi di sorta, non potendo immaginare, una volta scesa dalla corriera, d’esser colpita in faccia da una folata di vento che mi avrebbe fatto cadere nel vortice di una terra quasi odisseica.
Essaouira è una città di vento, è un piccolo porto dall’odor del sale insediato su una nuvola, dove il cielo tutt’attorno, sempre limpido di un azzurro intenso, si fonde con l’oceano e ne fa raffiche e cavalloni.
Essaouira non la senti. Il vento impetuoso copre ogni suono e lo rimanda lontano come un’eco, anche se di eco non si tratta, poiché, rubato, si enuncia in una sola volta, distante. E così anche il vociare del mercato sembra essersi spento. È tutto lontano, è tutto silenzio.
Mi aggiravo disorientata per i vicoli nudi e sozzi della medina, imbruttiti da una sporcizia passeggera, fatta di carte, cartine e oggetti trasportati dalle masse d’aria dell’oceano, e di una sporcizia pregnante fatta di piscio di gatti e urina di uomini ebbri. Le mura scalcinate degli edifici erano talmente turbate dal via vai del vento da spellarsi a vista, la loro pelle restava appesa formando tante bandierine che svolazzavano o, nel peggiore dei casi, venivano staccata e trasportate via nel cielo. Le genti erano per lo più diffidenti, sembravano scrutare ogni forestiero con mero discredito, per poi lanciarsi occhiate tra loro dando vita a un losco rimbalzo di sguardi. Muti, non avevano bisogno di aprire bocca per conoscere, ma solo dell’antico e arcaico fiuto del marinaio capace di interpretare la salsedine, sentire il cambiar del tempo e le terre lontane prima che si mostrino. Rimaneva, quindi, un solo protagonista a parlare: il gabbiano. Il suo perenne garrito stanziava come vele nell’alto della città, ed era lui solo a pronunciarsi, ad avvertire di terre lontane, ma lo sei già tu in una terra lontana. Lo siamo già noi, qui, perduti.
Quegli occhi prudenti sono quelli della gente di porto e così anche le pelli, scavate, scure e di primo acchito aggressive. I pescatori hanno la faccia come gli scogli, erosa dal vento, dal mare, dal sole. Mani tossiche domandano, afferrano, gettano e fan scivolare pesci viscidi e lucenti sulla pelle callosa. Richiami di una malavita che circola tutta lì, attorno al porto, alle panchine disposte verso l’oceano, per ammirare quella linea lontana narratrice di navi, tempeste, maree e orizzonte, quell’oltre dove sono trasportate tutte le voci della città e di cui s’immagina il brusio. Mentre noi qui siam come rapiti in una dimensione atemporale, fatta solo di supposizioni e di presentimenti.
Proseguivo impacciata, proteggendomi la bocca con la chèche, sospinta controvoglia dalle raffiche che, correndo da una parte all’altra, in modo incomprensibile ai più, restringevano i vicoli della medina fino a darti l’impressione di scomparire e diventar pelle anche tu, calcinaccio da spazzare. Cercavo di ascoltare la città, cogliere qualche suono per trovare un orientamento ma non era possibile udire alcun rumore, se non confuso e distante.
Il vento mi aveva rapita come un’ingenua dentro il suo turbinio convulso e avanzava sotto comandamento, ignaro di me o di qualsiasi altro corpo, come se avesse una missione o fosse preda di una più evidente collera. Mi spingeva fino ai margini della terra, dove rabbioso l’oceano si scagliava in folate d’acqua ruggenti sugli scogli neri, che apparivano così vicini se dalla paura si immaginava di cadere. Ma il vento no, lui non permette di gridare, di tornare, lui riempie la gola d’aria, ammutolisce e imprigiona nel silenzio come un folle che del mondo vede solo il suo dentro.
Sembrava di sentirlo il ruggire geloso dell’Otello di Welles, imprigionato anch’egli su questa terra d’aria. “Siamo tutti smarriti”, mi parve di udire, “quello che possedevi l’ho già portato via. Guarda bene, non resta che questo: occhi diafani ad aspettare, bocche aperte senza suono e un azzurro che fa rumore”.
E della giornata, poi, mi rimase solo il sapore dell’Atlantico addosso. Su di me, sui vestiti, sulla macchina fotografica, sul letto dell’ostello. Il sale era ovunque nel Riad. I suoni erano lenti, quasi spenti, non avevo forse più ascolto o Essaouira taceva.
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Davvero un bellissimo racconto il tuo. Hai un’incredibile capacità evocativa e descrittiva. Non sono mai stata ad Essaouira né tantomeno in Marocco ma è un viaggio che vorrei tanto fare. Mia sorella ci è stata varie volte e ama molto questa città.
Grazie! 🙂 Ti consiglio veramente di andarci, è un paese bellissimo, il cibo è buonissimo e le persone adorabili. In più, è tutto molto economico, quindi è un viaggio che si può organizzare anche all’ultimo minuto.
Quando si ripensa ad un viaggio fatto molto tempo fa, ciò che ricordiamo non sono i nomi delle località, dei monumenti o i dettagli storici. Questi tendono a sbiadire velocemente. Ciò che rimane impresso nella memoria spesso sono le sensazioni che quel luogo ci ha evocato. Sensazioni ed impressioni che hai descritto in modo suggestivo in questo articolo. Grazie per la condivisione di questa esperienza. ?
Grazie a te per averlo letto e apprezzato 🙂
Bellissimo leggere le sensazioni di questa giornata di vento, che annulla la voce della città! Mi ha trasportata lì con te.
Grazie 🙂