L’hammam si trovava a Zagora, davanti a un grande parcheggio deserto e arso dal caldo di quelle ore afose. Era l’una del pomeriggio di un inizio maggio in terre desertiche. La città era vuota, non vi era alcuna macchina per la strada né gente a passeggio. Sullo sfondo, quelle che loro chiamavano montagne ma che era più adatto definire colline rocciose, con il loro colore marron porpora striato di rosso sanguigna, contribuivano a seccare le fauci. In fondo al parcheggio, dall’altro lato dell’hammam, cominciava il palmeto. Alti e snelli, gli arbusti, si aprivano in un verde rinfrescante che mi riempiva la mente di sogni non per forza miei.
Al centro di un muro orizzontale, lungo quanto la zona parking, era incastrata la piccola portineria dell’hammam, simile a un botteghino, con a lato due entrare: a destra quella per gli uomini e a sinistra quella per le donne. Quel giorno mi accompagnò uno dei ragazzi della kasbah dove lavoravo e parlò lui col cassiere, traducendomi di volta in volta le domande: “Voglio essere lavata?” “voglio il massaggio?” Per il massaggio sono 50 dirham. “No, va bene così, magari la prossima volta. Intanto faccio da sola”, “il sapone nero, però, sì, quello lo prendo”. Totale: 15 dirham.
Durante l’acquisto del biglietto, dalla porta di sinistra uscì un donnone con passo svogliato, portandosi dietro una nuvola di umido e rumori ovattati che mi ricordavano gli spogliatoi delle piscine. Mi guardò sorridendo e una volta pagato m’invitò a entrare. Entrai subito in quello che era lo spogliatoio, una stanza quadrata in piastrelle zellige, con specchi orizzontali e panche a muro, sulle quali sedevano alcune donne intente ad asciugarsi. Dalla sala adiacente era tutto un via vai di femmine a petto nudo con corpo e capelli completamente bagnati, che trasportavano secchi d’acqua o acquistavano creme, fanghi, saponi e scrub dal vestiario. Sulla destra, nel bancone del guardaroba, era stato allestito un piccolo bazar che vendeva qualsiasi cosa potesse servire a una donna nella fase del bagno: saponi, maschere, shampoo, spazzole, e tanti altri intrugli dalle confezioni colorate e le scritte in arabo. La signora dietro al bancone era la stessa che mi aveva scortato all’interno. Nei suoi vestiti comodi e il turbante da lavandaia dava l’idea di una persona diretta, senza manierismi e con dei tratti del carattere di cui diffidare. Parlava e rideva ciarlona con tutte le signore che passavano, e con guizzi d’insolenza vendeva i suoi prodotti su richiesta, come se fosse un impiccio; finito l’affare, il suo viso ricadeva in un broncio assonnato, dando l’impressione che le risate di poco prima non servissero per rallegrare ma solo per schernire.
Mi svestii rimanendo in costume, m’infilai le ciabatte e andai da lei per sapere dove poter lasciare lo zaino. Invece di rispondermi, m’indicò il pezzo sopra del costume e mi disse di toglierlo, poi disse qualcosa alla cliente che picchiettava sul cellulare accanto a me ed entrambe si misero a ridere. Tolsi il reggiseno e lo ficcai nello zaino. Tornai al bancone e la cliente mi puntò il cellulare addosso come volesse scattarmi una foto, d’istinto mi coprii facendo uscire un “No!” deciso dalla bocca, lei abbassò il telefono sghignazzando. Risero di gusto quelle due, risero di me. La ciarlona, allora, più comprensiva, mi fece cenno di darle lo zaino mostrandomi un cinque con la mano a indicare i 5 dirham che avrei dovuto pagare per quel servizio.
Una volta consegnatole il tutto, scrutai la grande stanza in ombra sulla mia sinistra, da dove continuavano a uscire ed entrare tutte quelle donne dalle forme diverse, con passi sicuri alcune, con pigre andature altre, ma tutte invadevano lo spazio con movenze decise e autorevoli come chi non teme alcunché e conosce i tranelli della sorte meglio del saggio, dell’indovino e di Dio. Nessuna dava la minima sensazione di sentirsi a disagio. Seppur per la maggior parte del tempo quelle donne si coprissero fino all’ultimo capello, in quelle stanze la loro nudità non solo non era un problema ma non era neanche percepita in quanto tale.
Quando feci per addentrarmi nella prima sala di vapore, un’aimra’a* (*donna in arabo) mi guardò facendomi capire di seguirla. Entrammo nella prima stanza, quella meno calda. L’hammam si divide in tre stanze con tre differenti gradazioni di temperatura, dalla meno calda alla più calda. I passaggi da queste tre stanze dovrebbero farsi in modo regolare, ma per me non fu così. La prima sala era piccola e in penombra. Era pieno di donne sedute per terra che si lavavano, c’era chi si gettava acqua addosso, chi distesa si faceva strofinare una poltiglia rugosa e un’altra accovacciata accanto la aiutava sfregandola intensamente col guanto ruvido come se le dovesse cancellare la pelle. A vederle così, in quella stanza buia, sembrava quasi più una tortura che un trattamento di bellezza. L’acqua che scivolava dai loro corpi, portandosi con sé la pelle morta, i residui di fango e di sporcizia, passava sui piedi di tutte e poi finiva negli scoli da qualche parte negli angoli delle pareti.
Aimra’a andò proprio accanto a quelle due donne e prese qualcosa. Loro mi guardarono austere senza interrompere quello che stavano facendo, aimra’a mi sorrise e si diresse nella stanza successiva, io la seguii. I vapori emessi per tutto il bagno iniziarono a darmi un senso di fatica. Mentre camminavo in mezzo a tutti quegli sguardi, a tutte quelle forme e quei seni prosperosi, a quei corpi caldi e viscidi, color caramello e color pece, a quelle pance molli e a quelle cosce toniche, sentii una consapevolezza nuova nascere in me: fu la prima volta nella mia vita in cui mi sentii a mio agio col mio corpo. Là dentro il corpo era solo un dato di fatto, qualcosa che si usa, qualcosa di sporco con i suoi umori, il suo sudore, i suoi rifiuti. Là dentro, il corpo andava lavato e niente di più.
Entrammo nella terza stanza, quella più calda, dove non c’era quasi nessuno. Sulla destra, una giovane ragazza dai capelli lunghissimi e le forme sinuose si pettinava facendo scorrere l’acqua da un rubinetto installato sulla parte bassa della parete. Sulla sinistra, un’anziana sedeva a terra grattando con foga il kessa* (*guanto esfoliante) sulla spalla. Aimra’a stese con fare grezzo un tappetino a terra e mi fece sedere, poi sparì. Rimasta sola, cominciai a respirare lentamente per abituarmi all’alta temperatura. Sedevo a gambe incrociate e senza una vera intenzione osservavo le donne nell’altra stanza. Vi era una giovane mamma che cercava di pettinare i capelli ispidi della figlia. Alla piccola gli si allungavano gli occhi e il collo per quanto la madre le tirava indietro i capelli con la spazzola. A ogni pettinata piagnucolava cercando di sottrarsi a quel dolore, si dimenava, si abbassava, si rialzava, ma la madre la tirava per il braccio e continuava a pettinare.
I rumori dell’acqua che scorreva, delle secchiate d’acqua rovesciate sui corpi e sui capelli di quelle donne, mi cullavano come una speranza. Ne avevo letto nella Terrazza Proibita della Mernissi di questi rituali magici di bellezza, che coinvolgevano da millenni le donne del mondo arabo, e ora mi ci ritrovavo dentro e mi sentivo parte di un segreto, di qualcosa di privato, che appartiene a noi donne e in qualunque parte del mondo può esserci rivelato come un codice. L’hammam era molto più di un bagno, rappresentava un luogo dove spogliarsi dai connotati dell’immagine ed essere solo pelle e carne e capelli nudi da detergere e ripulire dallo sporco e dai mali della vita.
Ognuna di loro si era portata da casa un cestino apposito con dentro tutti i prodotti di sorta. C’era chi si concentrava sui capelli riempiendoli d’impacchi e pettinandoli senza sosta, chi s’impiastricciava il viso con fanghi e scrub e chi semplicemente grattava, grattava e grattava ancora il proprio corpo come a cercare qualcosa, una giovinezza passata, una bellezza sognata, la felicità.
La madre che pettinava la bambina si alzò per andare a riempire il secchio d’acqua, la bimba colse l’occasione per dileguarsi da qualche parte, senza sapere esattamente dove nascondersi, ma ruzzolò quasi subito scivolando sulle piastrelle, nel mentre riapparve la mia aimra’a con un grande secchio blu ripieno d’acqua. Lo posò accanto a me e col sedere all’aria trascinò un piccolo e basso sgabello e ci si sedette riversandoci sopra tutto il corpo morbido. Scambiò qualche parola con l’anziana nell’angolo, poi con un sorriso sornione mi prese un braccio e mi fece capire di passarle il sapone nero che avevo acquistato all’entrata. Glielo diedi, lo aprì e cominciò a insaponarmi. Mi passò il sapone su tutto il corpo: le braccia, la schiena, il seno, la pancia, le gambe e il sedere. Me lo spalmava con la stessa confidenza che si potrebbe avere con un figlio. Sentivo le sue mammelle nude sbattere sulle mie spalle e appiccicarsi per poi staccarsi subito dalla mia pelle. Non sapevo chi fosse quella donna, ma mi stava lavando come credo l’ultima volta aveva fatto mia madre quando ero ancora in fasce.
Aimra’a aveva tutta l’aria di una piratessa: la pelle color olivastro carbone, gli occhi e i capelli neri davano profondità a un viso tondo, come la sua figura. Aveva delle forme epicuree e tutta una gestualità priva di dolcezza, come se le sue mani avessero conosciuto solo fatti; ma quello che la rendeva a tutti gli effetti un pirata con cappello, anello al naso e sciabola, era il suo sorriso. Aimra’a sembrava sorridere perché gliel’avevano insegnato, senza sapere bene cosa volesse significare, sorrideva perché sapeva che avrebbe potuto farti timore, sorrideva come se ti stesse tendendo una trappola, pensando a un banchetto e a monete d’oro che poteva accaparrarsi.
Una volta consumato il sapone, s’infilò il Kessa, prese il mio braccio e cominciò a strofinare forte, senza preavviso. Sentii subito un forte fastidio, il kessa è un guanto ruvidissimo, che passato sulla pelle provoca quasi dei graffi, dei rossori su tutto il corpo.
Strofinava forte, tirandomi il braccio, e poi passò alle ascelle, alla schiena, alla pancia, alle gambe. Finito col davanti, mi fece girare come un pesce sul bancone e passò al sedere e alle gambe, spostandomi le mutande come se fossero roba sua. Infine, con un sorriso di bonaria soddisfazione mi mostrò il guanto ricoperto di tutta la pelle che mi aveva grattato via come si fa col legno da levigare.
Prese un’altra spugna a retina, meno ruvida del kessa, la insaponò e me la strofinò in faccia con movimenti circolari per poi proseguire nel resto del corpo. Terminato anche questo lavaggio, con gesti bruschi mi tirò le mutande più volte per farmi capire che dovevo pulirmi le parti intime da sola e m’incitò a farlo. Mi fece girare di spalle e senza che potessi accorgermene, prese il secchio d’acqua e me lo rovesciò in testa. Mi ritrovai annegata in un quel gesto. Non avevo previsto di lavarmi i capelli, ma ormai era fatta. Ero completamente fradicia da testa a piedi e lei continuava a tirarmi secchiate d’acqua nelle parti del corpo che presentavano ancora del sapone.
Si alzò e andò a riempire nuovamente il secchio, poi si rimise dietro di me, mi tolse l’elastico e le forcine dai capelli e iniziò a lavarmeli, per concludere con un’altra secchiata in testa, ma questa volta ero preparata e mi coprii gli occhi con le mani.
Mi sorrise annuendo, fiera del suo lavoro. La ringrazia e ricambiai il sorriso. Gettò l’acqua che rimaneva sul tappetino e lo raccolse insieme allo sgabello, sciacquò il secchio e mi fece cenno di seguirla. Ritornammo indietro nel mormorio, nella penombra, immerse negli sguardi. Sistemò gli affari che aveva preso nella prima stanza e mi riconsegnò fradicia, pulita e lucida alla sala del vestiario, per poi sparire nuovamente dentro il vapore dei bagni e il brusio di quei corpi.
Non sapevo perché quella donna mi avesse lavata visto che non avevo acquistato il servizio, pensai, allora, che l’avesse fatto per guadagnarsi qualche soldo.
Mi cambiai con calma, mi pettinai i capelli con i dentini della molla, non avevo previsto di bagnarli e non avevo portato niente con me per sistemarli. Li riordinai alla meno peggio. Andai al bancone e chiesi di pagare per l’intero servizio, ma la donna al vestiario mi fece pagare solo i 5 dirham, le chiesi se comprendevano tutto, lei non aggiunse altro, ma forse non mi aveva capito. Aspettai un altro po’ per vedere se aimra’a tornava, ma lei non tornò, così partii.
Uscii nell’arsura di quel pomeriggio marocchino. Mi sentivo benissimo. Ero felice, avevo fame e volevo solo godere dei piaceri della vita, ora che avevo una pelle nuova e il mio corpo dopo quel rituale poteva tornare al mondo, pronto a farsi insudiciare e giudicare ancora. Perché nessuno sa che esistono dei luoghi segreti dove noi donne possiamo rifugiarci ed essere solo corpi, corpi sporchi con le nostre pene da grattare via alla ricerca di gioie che dicono si trovino nascoste da qualche parte, sotto la pelle vecchia e la lordura del vivere.
Non sono mai stata in marocco ma ho avuto la possibilità di fare un vero hamnam in tunisia e mi è piaciuta molto come esperienza
🙂
Quando sono stata in Marocco, mi sapebbe piaciuto fare l’esperienza dell’hammam, ma purtroppo non ci sono riuscita perchè avevamo davvero poco tempo. Spero di riuscire a tornare e questa volta di avere più tempo.
L’hammam è un’esperienza da fare assolutamente, non solo per una questione di curiosità culturale ma proprio perché fa bene. Fatto una volta, non puoi più rinunciarci, io ho la fortuna di abitare in Francia e poter accedere tranquillamente agli hammam, tradizionali e non, appena ne ho voglia.
Anche io ho provato questa forte esperienza in Marocco. Sicuramente non fa per tutti, soprattutto per il clima confusionario e per gli sguardi delle altre donne poco abituate alla presenza di un’occidentale tra di loro. Anche io ho pensato a “La Terrazza proibita” e a tutta quella spensieratezza degli spazi dedicati solo alle donne. Mi sono portata a casa una pelle splendida e un po’ di autostima. Non è per tutte, ma tutte dovrebbero provarla.
Lo penso anch’io, tutte dovrebbero fare questa esperienza, se non altro per farsi una pelle morbida e idratata 🙂
Un’esperienza davvaro bellissima, hai raccontato tutto in maniera molto poetica! Non sono mai andata in un hamman tradizionale, ma mi hai fatto venire voglia <3
Grazie 🙂 Ti consiglio di provare appena ne avrai l’opportunità, potrebbe piacerti più del previsto. Io ormai preferisco andare nell’hammam che nelle saune.
Concordo con te che forse non sia Un’esperienza per tutti ma dal mio punto di vista da provare, spesso questi luoghi tradizionali non turistici ci fanno percepire meglio quella che è la loro cultura spesso non percepibile in altre situazioni. Anch’io ho letto il tuo stesso libro ?
Esatto, d’altronde provare non costa nulla. Inoltre, non è obbligatorio farsi lavare o lavarsi, si può anche semplicemente rilassarsi e godersi i vapori.
Mi ha emozionato questo racconto. Mi piacerebbe molto provare un hammam tradizionale – certo sono stata in alcuni luoghi che indicano di essere hammam, ma si tratta più che altro di centri benessere.
Dovresti proprio provarlo. In Italia non so, ma in Francia, nelle città più grandi, se ne possono trovare.